Video Transcript
Emily: Questa è un’immagine del tuo cervello. E questa e’ l’immagine del tuo cervello quando sbatti l’alluce. Ma è anche un’immagine del tuo cervello quando ricordi qualcuno che ti ha ferito profondamente. Quando proviamo dolore emotivo, in particolare il risentimento, il nostro cervello attiva alcune delle stesse aree che elaborano il dolore fisico.
Come lo sappiamo? In uno studio del 2003, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di giocare virtualmente a lanciarsi la palla. Il gioco è semplice: ci si lancia una palla avanti e indietro. Il problema è che gli altri giocatori sono dei computer, programmati per non lanciare più la palla a un certo punto al partecipante umano, escludendolo dal gioco. Quando i partecipanti iniziano a essere esclusi durante una partita, le scansioni funzionali MRI hanno mostrato un aumento dell’attività nelle regioni del cervello che si attivano anche mentre si subisce il dolore fisico.
Lo studio virtuale cyberball è stato fondamentale nel campo delle neuroscienze sociali – aiutandoci a comprendere perché il rifiuto, la solitudine o il risentimento possono avere effetti così gravi su di noi.
Ecco perché il rancore – o il risentimento – possono essere così difficili da superare. Il cervello è progettato per rilevare le minacce ed evitare i pericoli. Quindi, quando qualcuno ti ferisce, specialmente in modo significativo – una parte profonda e primitiva registra quell’atto come una minaccia al tuo benessere. Questo ricordo viene segnato ad alta intensità emotiva, suscitando in particolare emozioni come paura, rabbia e vergogna.
Il tuo corpo e cervello stanno lanciando segnali di allarme per dirti che qualcuno che ti ha ferito potrebbe farlo di nuovo. Non solo, il tuo cervello lavora seriamente per rafforzare quel ricordo.
Se la ferita è molto profonda, vi possiamo finanche costruire un senso di identità attorno. Perciò quando poi proviamo a perdonare la persona che ci ha ferito, ci sembra quasi come rinunciare a quella protezione e identità: ci sembra come di perdere il controllo. Il risentimento e il rifiuto a perdonare, dall’altro lato, possono farci sentire potenti. Ci crogioliamo in sentimenti negativi, ci sembra quasi di farci giustizia contro chi ci ha fatto torto. Ma in verità, si tratta di una forma di prigionia emotiva.
L’amigdala (il centro di gestione delle paure e dell’allarme) e la corteccia prefrontale (il centro dell’attività riflessiva) combattono tra loro mentre perdoniamo, poiché il perdono comporta lo spegnimento dell’allarme-minaccia, il che può far sentire insicuri. Il perdono può sembrare innaturale. Ma la guarigione e’ iniziare a scrivere interiormente una nuova narrazione, credendoci. E’ rinunciare all’illusione che provare dolore ci dia una superiorità morale, accettare che la vera guarigione non giungerà punendo chi ci ha fatto del male.
Ricerche suggeriscono che praticare il perdono, anche solo immaginare di farlo, riduce lo stress attraverso il cortisolo, e porta a cambiamenti positivi nell’attività cerebrale. Il perdono può ridurre il dolore percepito e la pressione sanguigna, rafforzare il sistema immunitario e contribuire a migliorare il sonno. Quindi il perdono non è solo una virtù morale, è anche un cambio fisiologico.
Ma che dire della reazione alla minaccia per evitare il dolore in futuro? Come perdonare senza metterci in pericolo? Beh, questa è una delle scoperte più straordinarie sul vero perdono: perdonare qualcuno non cancella il ricordo, ma cambia il modo in cui il cervello elabora quel ricordo. Se hai veramente perdonato qualcuno, ricordare l’evento potrebbe ancora causare tristezza o disagio, ma non innescherà la stessa attività cerebrale associata alla rabbia, all’amarezza o alla vendetta.
Il perdono e la fiducia non sono la stessa cosa. La fiducia è qualcosa che nasce con il tempo e l’esperienza di una persona che si dimostra affidabile. Il perdono è qualcosa che possiamo scegliere di concedere, indipendentemente dal fatto che l’altra persona sia disposta a crescere, riconciliarsi o costruire la fiducia.
Allora, come si fa a perdonare davvero? Basta solo deciderlo? Se ci hai mai provato, sai quanto e’difficile. Sai che devi perdonare, ma il tuo corpo e le tue emozioni continuano a ribollire ogni volta che ci pensi.
Di fatto, ci sono prove scientifiche e psicologiche a sostegno dell’idea che il perdono debba andare oltre una decisione razionale.
I ricordi dolorosi non sono solo idee immagazzinate, ma comportano intense reazioni emotive e fisiche. Il dottor Robert Enright è spesso definito come “il padre della ricerca sul perdono”. Al centro della sua ricerca c’è questa verità: il perdono non è completo finché la persona non passa emotivamente dal risentimento e dal dolore all’empatia, compassione e al rilascio emozionale.
Quindi, dove andare quando la testa ci dice di perdonare, ma il cuore e le emozioni urlano che non possiamo farlo? Dire semplicemente “ti perdono” o decidere di farlo non è sufficiente. Realisticamente, non possiamo davvero scegliere di perdonare se ignoriamo le nostre emozioni o le oltrepassiamo.
Le neuroscienze e la psicologia iniziano a confermare quello che detti popolari come “perdona dal cuore” hanno intuitivamente espresso per secoli: il vero perdono coinvolge non solo i nostri pensieri, ma anche le emozioni, l’identità, le relazioni e persino il nostro corpo. E questa antica saggezza fa sorgere interrogativi sulle implicazioni spirituali del perdono.
Quindi la scienza sta raggiungendo solo ora questa saggezza molto più antica. E se il perdono può ricablare il cervello, cos’altro può fare?